Nella spirale del tempo:
i teatri dell’isteria di Daniela de Lorenzo
testo di Alessandra Violi.
English Version
“L’uomo, forse, non può dimenticare nulla. [...] Tutte le forme, una volta prodotte dal cervello e dal sistema nervoso, da quel momento sono da esso ripetute frequentemente. Una medesima attività
nervosa produce nuovamente la medesima immagine”. (F. Nietzsche,
Frammenti Postumi.)
“Cito me stesso, non sono più nient’altro che il tempo”.
(F. Réné de Chateaubriand, Vie de Rancé)
Dei corpi isterici fotografati dalla medicina nel tardo Ottocento si dice che essi non rappresentino nulla: nessuna malattia, se non quella di un corpo-cliché talmente impresso da memorie di gesti e pose esterne da diventarne il proteiforme fantasma; nessuna anatomia riconoscibile, dato il potere anarchico dei nervi – simile all’arte per l’arte, diceva Charcot – di reinventare l’organico in nome degli affetti, contraendo gli arti in posture immaginarie o paralizzandoli in incongrue figure di pathos. Nell’isteria il soggetto si ritrae dunque dal corpo, ma ciò non al fine di annullarlo, o di liberarne soltanto, secondo l’interpretazione di molta arte successiva (dal surrealismo alle varie forme di body art), il potenziale estatico-figurativo. Si tratta piuttosto di restituirgli l’antica funzione di matrice informe di raffigurazioni (hystera, utero) e di darla in prestito all’irrappresentabile del Tempo perchè, incorporandosi, vi si manifesti, consegnandosi a noi tramite l’intreccio paradossale delle immagini-sintomo, bloccate nel presente da una memoria che inconsapevolmente si ripete, o attende il futuro per compiersi ed essere vissuta. Attraverso il loro nulla, quei corpi isterici doppiamente irrigiditi – dalla propria memoria, dalla fotografia come loro memoria – mettono cioè in figura il tempo, ci “danno il tempo” (Dammi il tempo!), ed è in questa luce che i lavori di Daniela De Lorenzo si propongono quali infinite variazioni del teatro malato dell’isteria, oltre che come risposta, essa stessa isterica (hysteriké, ciò che viene dopo, che è sempre in ritardo), alla domanda di attualizzazione (e comprensione) che proveniva da quelle immagini-pazienti: dateci tempo, datevi il tempo di guardarci. Isterizzando la propria opera Daniela De Lorenzo non si limita perciò a ‘ricordare’, citandolo, l’archivio iconografico di Charcot. Certo nella corea di Agile (2005) il ritmo è informato dalle sequenze dell’attacco isterico (il corpo arcuato, gli arti annodati...), curabile solo negando al movimento l’accesso al gesto come gerere, passaggio di tempo (i piedi legati in Cura la tua destra, 2005); ed è evidente che i calchi corporei in feltro di Dimentico subito o non dimentico mai (2006) hanno in memoria anche le impronte mediche, con i loro frammenti-sintomo riprodotti in arti di cera. Ma ripetere il passato significa per De Lorenzo inscriverlo a sua volta in una temporalità isterica. Come nel sintomo, esso deve cioè arrotolarsi nel presente e nel futuro, tornare come ripetizione del diverso: ce lo indica il copricapo della danzatrice in Agile, che raffigura insieme l’occhio del camaleonte, ossia la natura simultaneamente mimetica (duplicata) e metamorfica del sintomo, e il movimento a spirale del suo tempo, che cresce seppur avvitandosi su se stesso. Da qui lo svolgersi rotatorio dell’istante nei ritratti di Dammi il tempo!; oppure la trasformazione dell’identico nei due calchi di Dimentico subito o non dimentico mai (veri ‘atti’ teatrali isterici: la citazione è da Beckett, Aspettando Godot); o ancora il tempo del feltro, materia di corpi che Daniela De Lorenzo vuole privi di trama (di ordito, di storia) e sempre malleabili, re-improntabili al pari di una matrice, quasi fossero perennemente sospesi tra la mummia e il feto, il già-stato-che-rivivrà e il non-ancora-vivo. Nella spirale del tempo, l’iconografia del corpo isterico trascina allora con sé anche una visione panoramica dei propri fantasmi: le cronofotografie di Muybridge e gli sdoppiamenti temporali riconosciuti da un Bergson spettatore di Charcot entrano in circuito, nei lavori di De Lorenzo, con le “aure intellettuali” (paramnesie, déjà vu) tipiche della “malattia delle reminiscenze” (Freud), convertendo la patologia in raffigurazione, seppur allucinata, onirica, del movimento ordinario del tempo. “La nostra esistenza attuale – scrive Bergson in L’energia spirituale – , man mano che si svolge nel tempo è anche un’esistenza virtuale, un’immagine allo specchio. [...] Colui che avrà coscienza del continuo sdoppiamento del suo presente in percezione e ricordo, si paragonerà all’attore che recita automaticamente la propria parte, ascoltandosi e guardandosi recitare”. L’isteria, dunque, come camaleonte del tempo e del suo perenne sdoppiarsi, “camaleonte della [sua] energia” nell’espressione di Warburg (altro fantasma che qui ritorna), di cui, come nelle pose di Dammi il Tempo!, non si ha coscienza se non negli intervalli dove lo scorrere asintomatico dell’attuale s’inceppa, facendo emergere (col bianco e nero di Muybridge, o nell’effetto-specchio tra vita e morte creato da De Lorenzo in Se doubler, 2006) il suo doppio patologico. È allora che il corpo si ammala di sapersi nel tempo: torna, come il bambino paralitico di Muybridge, a innestare il ‘sorriso’ umano sul mimetismo istintivo dell’animale, accetta di essere una pura matrice energetica e nervosa, un archivio virtuale dove innumerevoli doppi del presente giacciono sciolti da ogni legame (letteralmente paralitici), e allo stesso tempo legati ancora al movimento patetico degli affetti, alla spirale di immagini recitate o da recitare. Perciò i ritratti di Dammi il tempo! guardano all’umano attraverso i racconti di Kafka e i loro corpi-animale, attori di una metamorfosi davvero isterica perchè, lo mostra il topo Josefine di Josefine la cantante, ovvero il popolo dei topi, essa serve soprattutto a dare al Tempo il tempo di divenire tempo: per il suo popolo, Josephine simultaneamente canta, ha cantato e canterà; i doppi ectoplasmici, irradiando la loro temporalità fantasmatica dai corpi fotografati, danno al presente immoto il tempo di passare. Raramente le anatomie di Daniela De Lorenzo rinunciano a estraniarsi nel loro doppio, non foss’altro che per tendere verso la sua immagine nello specchio (penso alle sculture rosse in Cura la tua destra), o per esibire, ancora una volta istericamente, che ciò che credevamo interno (il tempo, la memoria...) si rovescia invece in un esterno che prende forma attraverso di noi. Il processo sarà interminabile, il rito necromantico infinitamente ripetuto, poichè ciò che Daniela de Lorenzo mette in mostra è che ‘isteria’ significa dopotutto (ri)partire da una matrice malata di assenza, per la quale non ci sarà mai tempo abbastanza.
Alessandra Violi
Testo dal catalogo della mostra ‘Dammi il tempo!‘ 2007
Fondazione Adriano Olivetti, Roma.